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E’ entusiasmante seguire l’epopea dei mercanti italiani dal 1200 al 1500, anche perché spesso sono mercanti scrittori che scrivono sull’imprenditore, sull’impresa e sui suoi fondamenti etici e tecnici, quel tipo di imprenditori nei quali, per dirla con W. Sombart (Il Borghese, trad. it. Longanesi, Milano 1978), confluiscono lo spirito d’impresa e lo spirito borghese “che, soltanto quando sono uniti, formano lo spirito capitalistico” (“Nel vivido tessuto dello spirito capitalistico, lo spirito borghese rappresenta la trama di cotone, lo spirito d’impresa è l’ordito di seta”).
Se prendiamo, come esempio, uno dei più interessanti anche se meno noti di questi scritti, Il Libro dell’Arte di Mercatura composto nel 1458 da Benedetto Cotruglio, mercante raguseo che operò a lungo anche a Napoli e Barcellona (oggetto di una bella riedizione nel 1990 di Arsenale Editrice in Venezia), emergono, con chiarezza, alcuni filoni centrali :
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chiara consapevolezza del ruolo positivo della mercatura nella società ed orgoglio di tale ruolo;
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legittimazione della stessa per la sua utilità sociale (“mercatura è arte o vera disciplina intra persone legiptime giustamente ordinata in cose mercantili, per conservatione dell’humana generatione, con ispereanza niente di meno di guadagno”);
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piena armonia con la religione (“Il trattato è profondamente imbevuto di religiosità”, scrive Tucci nella prefazione) che deriva dal fatto che l’attività del mercante giova al bene comune e, per avere successo, deve esercitarsi nell’ambito rigoroso di uno stile di vita caratterizzato dalle virtù che sono proprie anche dei dettami della morale religiosa come ordinati dalla tarda scolastica della quale Cotruglio è sicuro conoscitore : operosità, frugalità, prudenza, onestà, moderazione, generosità. Fine dell’attività del mercante è di “acquistare con honore”;
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esiste incompatibilità tra esercizio della mercatura ed esercizio del potere politico (di Alvise Gritti, nel 1534, si dirà criticamente : “Ille vult esse dominus et simul vult esse mercator: esse autem dominus et mercator impossibile est”);
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l’arte della mercatura richiede una precisa conoscenza tecnica, e molte pagine sono dedicate alle tecniche mercantili. Ma il suo know-how non si esaurisce nella conoscenza tecnica. Essa richiede anche un sistema di valori preciso e delle precise attitudini, per l’emersione delle quali l’ambiente è molto importante (“ch’egli è di bisogno che da puerizia il mercante inbeva li gesti, modi, costumi et conversationi mercantili, con facundia et gravità in ogni gesto et acto”). Cotruglio spiega, con grande acume, come preparare un figlio alla mercatura. Ma se questi non ha inclinazione, cosa da capire osservando i suoi giochi ed i suoi comportamenti da fanciullo, non bisogna indirizzarlo alla mercatura (non deve essere né “troppo vario e vagabondo” né protendere “ad acquisto d’onore o d’utile o di vincere le pugne”). Il buon mercante è un uomo d’azione, ma anche di studio (deve sapere “tutto quello che può sapere uno homo”) e deve essere addestrato a “ricordarsi delle cose passate, considerare le presenti, prevedere le future”;
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il mercante deve essere un buon cittadino, ma per questo altre componenti formative sono essenziali, civili e religiose. Il buon cittadino non nasce dalla mercatura (oggi diciamo: l’impresa ed il suo sistema di valori non può essere autoreferente). E’ piuttosto il buon mercante che nasce dal buon cittadino;
- il mercante non deve accumulare e basta; deve essere generoso ed impiegare positivamente quello che accumula. Ma proprio per questo deve essere anche molto diffidente, prudente e temperante, per non disperdere ciò che ha accumulato. Deve avere molti conoscenti e pochi amici e guardarsi in particolare da donne, gente di Chiesa, aristocratici, poveri ed in genere da chi è cattivo pagatore. La temperanza è una virtù cardinale dell’etica mercantile. Essa vuole dire il giusto mezzo, in ogni manifestazione, dallo spendere al bere, al mangiare, al vestire, al partecipare ad attività ludiche, alla moderazione nel parlare;
- il mercante vive ed opera in città perché, come dirà, Paolo da Certaldo “la campagna fa buone bestie e cattivi uomini”; solo in città è possibile sviluppare “l’honesto vivere mercantile”. Il tradizionale approccio rurale della Chiesa è qui totalmente rovesciato.
Opere come quelle di Cotruglio sono preziose per capire il lento evolvere di un’etica imprenditoriale che, iniziata con gli Albertano da Brescia, raggiungerà il suo culmine, da noi, con i Matteo Palmeri, mercante ed umanista fiorentino (1406 - 1475), Poggio Bracciolini, umanista scrittore ed amministratore pubblico fiorentino (1380 - 1454) e con i celebri libri Della Famiglia di Leon Battista Alberti, umanista ed architetto, nato a Genova ma attivo in tutte le maggiori città italiane del tempo (1404 - 1472). Ma quest’etica sopravvive al suo tempo. Da noi essa si affloscia, si disperde, si assopisce con la “disintegrazione“ del Rinascimento (Peter Burke) ; con l’appagamento per troppe ricchezze; con la crisi politico - economica - militare dell’Italia; con il lento spostarsi altrove, verso il Nord, dei centri di potere economico come effetto dei grandi mutamenti geopolitici; con il trionfo della Controriforma, l’Italia si rifeudalizza: “nell’Italia del XVI secolo sembra si sia verificato un passaggio graduale di ricchezza e di potere dai mercanti alla classe dei proprietari terrieri, un passaggio che i marxisti definiscono come “rifeudalizzazione”. Le città - stato indipendenti ed i loro patriziati mercantili, che hanno fatto dell’Italia una parte tanto caratteristica dell’Europa, furono rimpiazzate, a parte Venezia e Genova, da corti e aristocrazie. Elegante, sofisticato, scherzoso e allusivo, il manierismo è uno stile aristocratico”. (Peter Burke, Il Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1990). Sombart ricorda (rifacendosi attraverso Burckhardt al Novellino) la testimonianza da una cittadina meridionale secondo la quale, già prima del 1500, è evidente un processo di impoverimento da neo – feudalizzazione: “La località un tempo, quando vi vivevano soltanto muratori e tessitori, era stata tradizionalmente ricca; ora che vi si vedevano soltanto speroni, staffe e cinture dorate invece di teloni e di attrezzi da muratore e ora che ciascuno cercava di diventare dottore “utriusque iuris” o in medicina, notaio, ufficiale o cavaliere era subentrata invece la più nera miseria”. A Firenze nel corso del ‘500 questa mania nobiliare, che poi si sviluppò in tante città italiane ed i cui precipui elementi erano il disprezzo del lavoro e la mania dei titoli aristocratici, già era chiamata tendenza di “inspagnolare la vita”. La grande spinta operativa ed intellettuale, nata nei nostri piccoli comuni, si esaurisce.
Ma essa continua e si alimenta di nuove energie altrove, nei paesi del Nord e soprattutto nel nuovo grande paese emergente, l’America. Tra l’etica imprenditoriale iniziata con Albertano e che culmina con la “santa masserizia” dell’Alberti e quella dell’americano Franklin esiste, come è stato autorevolmente evidenziato, una grande coincidenza. L’operosità ora si chiama “industry”, la moderatezza si chiama “frugality”, l’uso accorto del tempo si chiama “time is money”, la correttezza si chiama “honesty”. Ma il quadro di riferimento, i valori fondanti e le matrici culturali sono comuni. In America sta iniziando un nuovo ciclo che porterà a delle grandi discontinuità. Ma il quadro di partenza resta comune, resta quello dei grandi valori borghesi e segnatamente della borghesia imprenditoriale. La favola weberiana che lo spirito imprenditoriale derivi dal Protestantesimo è una favola tenace ma nulla più che una favola, come ha scritto Fernand Braudel (La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1977).
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